Intervista a Giuseppe De Rita: una perdita d’identità che può generare rancore sociale (Galeazzi Giacomo)

image«A scomporre il corpaccione del vecchio ceto medio concorrono il primato della politica riaffermato da Renzi , i laureati del politecnico che, attraverso le nuove tecnologie, diventano imprenditori e le minoranze attive dei piccoli e medi esportatori». II sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis, da mezzo secolo osserva, analizza e anticipa i cambiamenti dell’Italia. «Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale: questo scontento rancoroso deriva dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Insomma «si è rotto il grande lago della cetomedizzazione, storico perno della agiatezza e della coesione sociale».

Chi è il killer del ceto medio?

«I 70 e 80 furono gli anni della rivoluzione. Declinata l’articolazione di classe, il ceto medio arrivò ad essere l’85% della società. Dal docente all’ex bracciante meridionale diventato usciere al ministero.  Si è esaurita l’idea di una classe dirigente capace di farsi carico degli interessi collettivi. Oggi per effetto della crisi quella massa è smarrita, pessimista, senza idee e con redditi sempre più scarsi. II grande invaso della cetomedizzazione perde i pezzi, si rimpicciolisce e viene svuotato da un processo di devastazione dell’identità collettiva. Pasolini è stato profetico».

Quale “profezia” si è avverata?

«In quattro decenni il piccolo borghese tradizionale non ha portato nulla di nuovo. E’ stato l’imborghesimento da consumismo a creare il ceto medio inerte che non è classe di spinta, di innovazione. Da anni nella società non ci si distingue più per appartenenza professionale, ma per categorie. I ricchi e i poveri, quelli al di sotto dei 4Omila euro e quelli al di sopra. L’entrata in vigore dell’euro e la mancanza di soddisfazione professionale hanno alimentato un un’atmosfera di demotivazione, tristezza. Un vuoto malinconico e pessimista dove la colpa è sempre di qualcun altro. Le minoranze attive erodono il ceto medio massificato».

Cosa c’entra il premier?

«Propugna il primato della politica e ritiene la dimensione intermedia della società troppo conservatrice e inerte. Quindi la penalizza, per esempio riducendo il peso e la ricchezza dei pensionati. Ma la cultura minoritaria d’élite non trascina il resto della società. Siamo diventati un popolo di singoli e una minoranza dinamica tenta di cambiare la struttura della società. Io mi sento un vero cetomedista. Una madre maestra elementare e un padre direttore di banca. I miei genitori, figli di persone più povere, erano orgogliosi di dire “noi, ceto medio”. Nell’industria e nel pubblico impiego, la classe dirigente è cresciuta in un modo semiburocratico, tutto interno alla corporazione».

A garantire un terzo del Pil sono le aziende che esportano….

«Le nuove minoranze vengono dalle imprese. Non tutte le imprese, però, solo quelle più all’avanguardia e internazionalizzate. Sono imprenditori di nicchia, che scommettono su prodotti di lusso oppure che operano su commessa. Nel paese c’è una maggioranza silenziosa, fatta dal precario che dice “sto male”, “non ce la faccio più”, “sono disperato”, con accanto il poliziotto che si leva il casco e si trova anche lui nel malcontento. Facce infelici di un ceto medio che si è sfrangiato in una realtà fatta di esodati, disoccupati e commercianti costretti dalla recessione ad abbassare le serrande. L’ampliamento delle diseguaglianze sociali aumenta l’infelicità».

Come se ne esce?

«La salvezza sta nel tenere la barra dritta. Possiamo contare sulla propensione a riposizionare gli interessi: nelle strategie aziendali come in quelle familiari. Cresce la responsabilità imprenditoriale femminile nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione. La globalizzazione richiede più energie nel processo di radicale revisione del Welfare e nell’ economia digitale, dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico».

Più economia e meno finanza?

«Da anni si parla solo di finanza. Dobbiamo tornare a occuparci di economia reale e ad avere opzioni di lunga durata per scongiurare una realtà sociale lasciata a se stessa, con moltitudini che vagano senza conoscenza, in preda ad emozioni montanti. Si smarrisce il senso del tempo che entra nella storia. C’è un solo processo che impegna ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. Siamo passati dalla famiglia “spa” di qualche anno fa all’odierna famiglia distributrice, in sostegno di giovani senza lavoro e anziani non autosufficienti. Dalle articolazioni interne del sistema Italia si comprende il valore della coesione. Una società, immobile, rattrappita fragile e isolate ha bisogno di un po’ di sano nazionalismo da conciliare con la sovranità del sociale. Senza una visione d’insieme si è prigionieri dell’evento giornaliero».

Fonte: La Stampa del 19 agosto 2014

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